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Riorganizzazioni e fusioni tra ONG

Non sono solo gli aiuti allo sviluppo governativi a portare il segno meno in questi anni di crisi. Anche i volumi delle donazioni da privati preoccupano gli operatori. I dati registrati nel periodo natalizio 2012, pur restando in linea con il 2011, dicono che il 34% delle organizzazioni dichiara una perdita rispetto all’anno precedente. Questo dato della ID è confermato da un’indagine del Sole 24Ore che registra una sostanziale fedeltà dei donatori (85%) e una contrazione vistosa dei volumi totali della raccolta fondi da privati.

Insomma la competizione per i finanziamenti pubblici e privati si fa sempre più dura e questo mette a dura prova decine di ONG e associazioni italiane del settore. Sono diversi i casi di dissesto finanziario e conseguente ridimensionamento degli organici. Licenziamenti, contratti di solidarietà e cassa integrazione sono ormai all’ordine del giorno anche nel non profit.

 

Il fenomeno delle fusioni

 

Il fenomeno non è solo italiano, anzi a livello europeo sta già spingendo le organizzazioni ad adottare atteggiamenti tipici delle grandi imprese multinazionali. “Per sopravvivere, molte ONG sono costrette a fondersi, e quelle più piccole spesso finiscono per scomparire. Vediamo anche una maggiore diversificazione di attività e metodi di marketing aggressivi – perché la reputazione è sempre più importante se si vuole aumentare le donazioni “, spiega Bénédicte Hermelin, direttore di GRET, importante ONG francese. “Il processo in atto è molto simile a quanto avviene nel settore privato, con i grandi attori che investono sui grandi mercati e la crescita, e quelli più piccoli che si specializzano diventando di nicchia.”
Questo fenomeno è favorito anche dai finanziatori istituzionali (come le Nazioni Unite, la Banca Mondiale o l’Unione Europea) che preferiscono dare soldi a un minor numero di grandi e forti organizzazioni rispetto a numerose e più fragili strutture. Nel mondo occidentale, il 20% delle organizzazioni rastrella oltre l’80% dei finanziamenti.
Le grandi ONG internazionali  hanno scelto la strategia di creare filiali in diversi paesi, cosi fanno le grosse family come MSF, ActionAid o Save the Children, altri scelgono modalità diverse per inglobare ONG locali (come Oxfam ha fatto in Spagna, Italia e altri paesi), altre ancora hanno scelto di federarsi, come le Caritas.
Ai più piccoli e più numerosi non resta che cercare di fare rete all’interno di piattaforme nazionali o regionali, fino al livello europeo rappresentato da Concord. Questo perché “le ONG si sono rese conto che, per essere influenti e non soccombere dovevano essere presenti ed efficienti in un ampio numero di paesi contemporaneamente”, così spiega Olivier Consolo, direttore di Concord a Bruxelles.

 

Anche in Italia diverse cose si muovono

 

Nel nostro paese si parte da una lunga esperienza delle Federazioni di associazioni e ONG (Cipsi, Focsiv e Cocis) che negli anni hanno visto ridimensionato il loro ruolo con l’avvento delle family internazionali e il successivo cambiamento dell’Associazione ONG Italiane. Da qui si sono creati altri due attori di rappresentanza, uno delle family (il CINI) e un altro di una decina di importanti ONG (Link 2007).

 

Recentemente un crescente numero di organizzazioni si trasformano da Associazioni (ONG) in Fondazioni (Cesvi, Acra e Intervita, solo per citarne alcune). I motivi della scelta sono legati soprattutto al problema della governabilità oltre che al livello di responsabilità degli amministratori. Le ONG sono enti non profit di una certa complessità gestionale che devono poter prendere decisioni rapide anche su aspetti strategici. Non sempre è efficace aspettare la volontà di un’assemblea che si riunisce una volta l’anno e che normalmente sa poco di scenari futuri e di conduzione di enti non profit.

E’ recente anche la riorganizzazione di Coopi che ha annunciato un progressivo decentramento delle attività nei 24 paesi dove opera. Si tratta di decentrare la fase decisionale e gestionale delle attività di cooperazione.

 

Anche riguardo alle fusioni esistono nel nostro paese alcune esperienze. Una è datata 1998 e si tratta fusione di Nuova Frontiera e Cidis che hanno dato vita alla ONG Alisei. L’altra più recente quella di Acra e CCS che si sono unite nella Fondazione ACRA-CCS.

 

Certo non si può dire che questa sia una tendenza nel nostro panorama non governativo che anzi continua a proliferare. Oggi sono 253 le ONG idonee in Italia e più di 2000 le associazioni e onlus che si occupano di cooperazione.

 


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  1. Quando le fusioni sono una risposta alla crisi non si va solo a sbattere contro il muro: alla crisi successiva ci si disgrega.
    Le fusioni dovrebbero essere un obiettivo strategico, perche’ non e’ vero che piccolo e’ bello, ma e’ vero il contrario: più’ grandi più’impatto più’ efficienza. Ma nel paese delle 100 citta’ e’ più’ facile per le organizzazioni italiane (incluse le ONG) farsi colonizzare dai nordeuropei che mettersi in discussione.

  2. Cari della redazione,
    lo spunto mi sembra molto interessante ma concordo con l’intervento precedente….come fare a promuovere unioni, federazioni o fusioni di tante associazioni e/o ONG che hanno la stessa mission e oggi sono davvero a rischio chiusura?
    Sarebbe molto interessante anche per ottimizzare i costi di gestione che ormai sono necessari per garantire trasparenza ed efficacia di una ONG. Ma da dove cominciare? Forse dai coordinamenti regionali già esistenti? Credo davvero che la frammentazione oggi rischia davvero di non farci raggiungere gli obiettivi, spesso molto alti, delle nostre organizzazioni. Sarebbe bello che una riflessione del genere fosse coordinata a livello di associazione delle ONG o del terzo settore.
    Credo che questi siano gli anni di una grande trasformazione quindi non si può non porsi interrogativi importanti per la cooperazione del futuro.
    Saluti Giorgio

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