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Sette regole d’oro per comunicare la cooperazione

L’Anno Europeo per lo Sviluppo (EYD2015) sarà una grande opportunità per comunicare i temi dello sviluppo e della cooperazione. L’idea che accompagna quest’anno tematico è proprio quello di allargare il pubblico a cui comunicare i temi dello sviluppo globale cercando di far percepire all’opinione pubblica il cambiamento in atto nei così detti paesi del sud del mondo. Si avverte la necessità di comunicare in maniera più efficace il lavoro delle nostre organizzazioni anche utilizzando nuovi messaggi e nuovi strumenti. Si tratta però di una sfida difficile per il nostro settore soprattutto a giudicare dai messaggi e dalle immagini che ancora vengono veicolate quotidianamente. Nonostante le tante parole spese negli ultimi anni per cercare una nuova narrazione dello sviluppo e le tante buone pratiche di cambiamento, il grosso della nostra comunicazione si ostina a puntare su luoghi comuni, stereotipi e cliché legati alla povertà, alla malnutrizione e alla condizione dell’infanzia nel sud del mondo. Se non ne siete convinti andatevi a guardare lo spot di una grande ONG internazionale che proprio in questi giorni sta andando in onda su tutti i canali televisivi. Sempre la solita storia, per un rid o un’adozione si spiattellano in TV fermi immagine di bimbi estremamente malnutriti, flebo al braccio, sguardi impietriti che supplicano aiuto.

 

In Italia non esiste un codice di condotta concordato a livello settoriale dalle ONG sul fronte dell’etica della comunicazione che fissi regole minime su come veicolare immagini e messaggi relativi ai contesti dove operiamo.
Ci hanno pensato invece in Irlanda, dove la rete nazionale delle ONG con il supporto della Cooperazione irlandese hanno elaborato e sottoscritto un Codice di Condotta che è accompagnato da una guida per la sua attuazione.

 

Nella guida si trovano diversi spunti di riflessione che prima o poi dovranno essere presi in seria considerazione dagli operatori delle ONG, in particolare quelli che si occupano di raccolta di fondi, comunicazioni e advocacy. La riflessione però non si deve fermare a questo livello, serve coinvolgere i dirigenti e la governance delle organizzazioni non governative e i loro fornitori, agenzie di comunicazione, creativi, fotografi, giornalisti e copywriter.

 

Il Codice chiede ONG di riflettere criticamente sui messaggi che stanno ritraendo, ponendosi delle domande sul linguaggio che usano, e le implicazioni dell’utilizzo dei diversi termini. Quando si tratta di immagini, la questione non è meno importante. Non si tratta solo di utilizzare immagini negative o positive, ma di utilizzare quelle che possono modificare lo stereotipo.
Il Codice invita le organizzazioni a presentare un’immagine realistica della vita delle persone che ritraggono, che spesso sono partner o beneficiari dei nostri progetti. Si propone poi di diversificare le voci, le prospettive e le rappresentazioni pubbliche dei contesti dove si opera per esempio evitando che i colleghi espatriati o i giornalisti stranieri siano il solo ed unico medium della comunicazione.

 

Qui di seguito riportiamo i sette principi su cui si basa il Codice:
1. Scegliere le immagini e i messaggi correlati in base a valori di rispetto, uguaglianza, solidarietà e giustizia.
2. Rappresentare in modo onesto ogni situazione rappresentato il contesto specifico e quello più ampio, in modo da migliorare la comprensione pubblica delle realtà e la complessità dello sviluppo.
3. Evitare immagini e messaggi che possano creare uno stereotipo, discriminare persone, situazioni o luoghi e/o creare sensazionalismo.
4. Utilizzare immagini, messaggi, e casi di studio con la piena comprensione, partecipazione e autorizzazione dei soggetti coinvolti (o dei genitori dei soggetti)
5. Garantire a coloro che sono direttamente coinvolti nella situazione che viene rappresentata la possibilità di comunicare le loro storie o la loro versione dei fatti.
6. Chiedere e registrare se i soggetti desiderano essere nominati o identificati e agire sempre di conseguenza.
7. Agire conformemente agli standard più elevati in materia di diritti umani e protezione delle persone vulnerabili.

 

Non mancano altri suggerimenti importanti sulla gestione sei social network che amplificano facilmente i messaggi e ne moltiplicano la portata. Alcuni operatori suggeriscono per esempio l’utilizzo esclusivo di immagini originali che possano essere circostanziate e referenziate citando il luogo, il periodo e la situazione in cui sono state prodotte. Evitare quindi l’utilizzo di immagini di repertorio che non hanno un riferimento preciso rispetto al testo che le accompagna.

 

Infine la protezione della privacy e dell’immagine dei minori attraverso l’utilizzo di apposite liberatorie o l’effetto pixel per coprire il viso di minori dei quali non si abbia il consenso.

 

Riusciremo a fare qualche passo in avanti in queste direzioni? A voi i commenti e la segnalazione di buone e cattive pratiche di comunicazione.

 

Scarica il testo completo del Codice di condotta

 


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  1. Articolo meraviglioso, con cui sono completamente d’accordo: sono iper-stufo di una certa pornografia della solidarietà, che ti sbatte sempre davanti il solito stereotipo <>
    Sono 40 anni che vedo sempre le stesse cose e sempre gli stessi slogan (pure le stesse inguardabili facce di certi testimonial nostrani), vedo che aumentano sempre più le associazioni dietro alle quali non c’è niente, con sedi lontane a protezione da da approfondimenti indiscreti, con elevate nebulosità nella gestione dei soldi e nella precisa indicazione del loro impiego, con pressochè totale mancanza di partecipazione e collaborazione nei processi di sviluppo endogeni locali, snobbati o sottostimati nonostante potrebbero fare le stesse cose meglio e con costi minori.
    Porca miseria, in 40 anni di sforzi, con stime di oltre 800 miliardi di dollari raccolti, si dovrebbe pur vedere qualche bimbo in meno con la pancia gonfia, perchè sono stati migliorati i raccolti locali, o qualche bimbo in meno con problemi alla vista perchè la rete sanitaria ha formato, pagato, sparpagliato infermieri, medici, dispensari ecc…
    E invece addirittura alcune associazioni strappalacrime, ovviamente qua non indicabili (ma cfr. il loro sito!) nemmeno illustrano dove operano (magari qualcuno avesse voglia di andar a dare un’occhiata…), cosa fanno di preciso, quanto costano unitariamente i loro interventi (caso mai qualcuno obiettasse che costano il doppio di quelli offerti da servizi o associazioni locali) e soprattutto quanto rimane alla fine investito, al termine di costosissime campagne pubblicitarie, di marketing e di costi gestionali gonfiati per darsi stipendi da favola. In tutto il mondo al di fuori dell’Italia è in corso da anni una discussione e un confronto molto più maturi sui temi dello sviluppo, che non passa per il pietismo e per l’elemosina, ma che chiama a raccolta le forze sane di ogni Paese del Nord a collaborare alla crescita dell’organizzazione sociale, tecnica ed economica degli altri Paesi. In tutta questa evidente nostrana corsa al ribasso, che riporta il livello della discussione indietro agli stessi livelli degli anni ’70, presentano secondo me pesanti responsabilità anche certe Ong “televisive”, ormai non più alla ricerca di radicamento e sostegno territoriale e nemmeno più “fari di pensiero” sui temi dello sviluppo, ma solo, e sempre più, schiacciate su ragionamenti autoreferenziali di sopravvivenza delle proprie corpose (a volte, diciamolo pure, anche “grasse”) strutture interne amministrativo-gestionali-diplomatico-progettuali. E, tutte prese in questo ripiegamento, hanno perso del tutto i contatti con quegli stessi obiettivi, azioni e risultati che il pionierismo della cooperazione aveva concorso a raggiungere; e a quel punto chi glielo fa fare di promuovere levate di scudi o importanti campagne popolari per reclamare il rispetto degli obiettivi del Millennio? o per il raggiungimento del tante volte approvato impegno a destinare la quota dello 0,7% del PIL allo sviluppo (siamo ad appena 1/4 mentre le spese militari hanno fatto il giro di boa del raddoppio delle previsioni !)? Ma, forse complice la crisi, avverto che soprattutto sempre meno si fanno sentire i tentativi di arginare le nebbie e le paludi di alcune grandi business-Organizzazioni; con le solite moine televisive, ben descritte nell’articolo di info-cooperazione, hanno ormai concentrato nelle proprie mani quasi tutta la raccolta delle donazioni ed oltre la metà del 5 x mille per la cooperazione allo sviluppo arrivando anche a milioni di euro, ma con un modus operandi che a me tutto ricorda tranne la parola “cooperazione”, anche se tutti ormai portano loro solo incenso e meriti. E’ proprio di oggi l’ennesimo logoro grido d’allarme dell’UNICEF: servono 3,1 miliardi di dollari per aiutare 62 milioni di bambini, presentato nel rapporto “Humanitarian Action for Children” dell’associazione che lancia l’appello col solito bambino occhionigrandielucidi: «Dobbiamo dare adesso servizi vitali e cure ai bambini che hanno estremo bisogno di aiuto, provvedere a realizzare operazioni che consentiranno loro di creare un futuro di pace. Non è solo un’immediata azione umanitaria, ma un investimento a breve termine che avrà benefici di lungo periodo» .
    Dall’altra le ormai unanimi critiche comuni su ogni tipo di social media: Unicef, grandi Agenzie, grandi charities drenano e trasformano enormi quantità di denaro destinato ad aiuti in spese utili solo alla sopravvivenza loro, del loro circo Barnum mediatico, di un sistema burocratico elefantiaco e di sistemi istituzionali locali “invasivi” che da queste nebulosità succhiano altre grandi quantità di risorse.
    Ed ecco allora in contemporanea la pronta risposta di Padre Pedro Opeka, un missionario argentino d’assalto, che dalla sua rete di sostegno a famiglie e giovani in difficoltà in Madagascar, attraverso cui ha tolto dalla strada e dalle discariche di Antananarivo davvero migliaia e migliaia di persone applicando le idee di dom Hélder Câmara, si scaglia con ira: « malgré les sommes impressionnantes mises enjeu, combien d’enfants l’UNICEF a-t-elle sorti de la rue ? »

  2. Propongo di tradurre la guida di Dochas e diffonderla a livello nazionale! Faccio presene che qualche anno fa (credo nel 2006) era stata impostata da un gruppo apposito di AOI una Guida Dentologica sulla comunicazione…oggi alcune ong (anche italiane..) che avevano aderito a quei principi fanno (ab)uso di immagini “pornocaritatevoli” per citare Marco Sassi….

  3. perfettamente d’accordo…è un cambiamento di prospettiva che anche l’Associazione Mekané sta tentando di promuovere attraverso varie iniziative, ma sembra che alcuni stereotipi visivi siano difficili da sradicare!

  4. Come iscritto all’ordine dei giornalisti del Piemonte, parteciperò il 5 febbraio, a uno degli appuntamenti previsti nel quadro dell’obbligo che abbiamo di una formazione continua su base triennale. Ho scelto una conferenza di 4 ore sul tema: “L’innovazione digitale per raccontare lo sviluppo e la cooperazione internazionale”. Il tema è di mio gradimento avendo terminato qualche mese fa, 20 anni di servizio in Africa con diverse ONG. Sarò particolarmente attento alla problematica sollevata da questo articolo, per capire se e come certe domande e situazioni sono già all’attenzione dei relatori che hanno proprio il compito di aggiornare, e quindi aiutare i giornalisti, a fare bene il lavoro su tematiche diverse; in questo caso appunto la cooperazione. Grazie.

  5. HELP FOR OPTIMISM
    Già nel nome mi vien voglia di dare una mano a questa giovane e ancora piccola associazione di Torino (ma emiliani di origine) che fanno water sanitation in Madagascar.
    E tutte le loro foto, che sprizzano allegria…
    ecco a me fanno venir voglia di aiutarli, perchè si capisce benissimo che hanno idee e progetti chiari, anche se sono “progetti di merda” (latrine) sono divertenti e trasparenti e non predicano il salvataggio del mondo intero. Non li conosco di persona, per cui non sto tirando nessuna volata, ma mi sembrano un bell’esempio di comunicazione positiva che riassume le considerazioni dell’articolo .
    E anche il loro sito è fresco, arioso, accattivante, senza fronzoli, senza prolegomeni, serio ma non scostante:
    OUR GOAL
    HOW TO DO
    IL CONTESTO
    IL PROGETTO
    IL PROBLEMA
    LA SOLUZIONE

    per me : BRAVI !!

    http://helpforoptimism.org/

  6. Spero davvero che prima o poi si stabiliscano delle regole ferree relative alla comunicazione nel settore della cooperazione (e non solo) e la finiamo, una volta per tutte, di diffondere immagini grottesche, fuorvianti, indecenti al solo scopo di estorcere sentimenti di compassione e con questi il denaro. Smettiamo di solleticare il sentimentalimo da gattare (con tutto il rispetto per le gattare, che fanno un lavoro encomiabile, e per i simpatici gatti)che mal si sposa con la sfera umana e a complessità di popoli e di interi continenti.

  7. Dopo l’articolo su “Vita” di Nino Santomartino del 2 novembre scorso (http://www.vita.it/it/article/2015/11/02/raccolta-fondi-e-immagini-shock-quale-punto-di-equilibrio/137210/)
    forse è il caso di riprendere la discussione sul tema “comunicare la cooperazione”.

    Sarebbe interessante che tutti coloro che lavorano nel settore comunicazione delle ONG e che hanno disapprovato e stigmatizzato come “pornografia” le campagne che usano foto e immagini shock per la raccolta fondi raccontassero su INFOCOOPERAZIONE come hanno impostato la pubblicizzazione/raccolta fondi della propria associazione.

    Sarebbe un ottimo strumento di confronto e discussione per capire come sia possibile parlare di “aiuto” senza utilizzare un certo tipo di messaggio pietistico e/o lesivo della dignità proprio di chi si vuole aiutare.

    Comincio io con il CIES onlus di Roma, di cui sono il responsabile comunicazione ed eventi.

    La nostra ultima campagna 5×1000 si è basata sul concetto di “affermazione in prima persona” del proprio impegno da parte dei “soggetti” che in altre campagne sono “oggetto”della campagna stessa.

    Si è scelto infatti di mettere delle foto in primo piano di persone (una giovane ragazza africana, un ragazzo italiano, una bambina rom, una giovane uomo cinese) che affermano la loro volontà in un breve slogan; noi appoggiamo con i nostri progetti e le nostre attività proprio queste volontà di cambiamento.

    Crediamo che sia più corretto ed efficace rappresentare un giovane uomo cinese con lo slogan “Lotto contro il razzismo” o una bambina Rom con lo slogan ” Voglio una società inclusiva” invece di raccontare quello che noi facciamo o vorremmo fare PER loro.

    Lavoriamo molto CON i giovani italiani, stranieri, “di seconda generazione” ed il confronto con loro (forse più dei codici deontologici) ci ha fatto capire quanto sia importante un messaggio non genericamente “ottimista” o peggio “buonista” ma improntato alla collaborazione e alla partecipazione

    Ecco raccontata in breve l’impostazione della nostra comunicazione: spero che altri abbiano voglia di fare altrettanto.

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