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Le ONG stanno perdendo la guerra contro la povertà e il cambiamento climatico…e non solo quella

Lo afferma il segretario generale della rete Civicus in una provocatoria riflessione sul presente e il futuro della società civile impegnata nelle più importanti sfide globali. Il monito è contenuto in una lettera aperta rivolta alle più grandi charity e alle loro reti internazionali, secondo Sriskandarajah le ONG non sono più veicoli di cambiamento sociale e anzi in molti casi “salvare il mondo” è diventato un grande business. Come abbiamo perso la nostra strada? Siamo ancora in tempo per cambiare il corso delle cose?

 

Negli ultimi 40 anni, abbiamo assistito ad una crescita esponenziale degli attori della società civile. Per fare un esempio basta guardare questi dati: oggi ci sono oltre 4 milioni di associazioni in India, 1,5 milioni negli Stati Uniti e 81.000 ONG internazionali e reti, il 90% di loro è nato a partire dalla metà degli anni ’70. Questo dovrebbe essere musica per le mie orecchie. L’organizzazione che conduco esiste per rafforzare la società civile e l’azione dei cittadini di tutto il mondo. Allora, perché sono preoccupato? Credo che questa crescita esponenziale, insieme all’istituzionalizzazione e la professionalizzazione che l’hanno accompagnata, stia causando alcuni seri inconvenienti.

 

E’ vero, stiamo vincendo alcune battaglie qua e là, ma stiamo perdendo la guerra; la guerra contro la povertà, la disuguaglianza, l’esclusione e il cambiamento climatico. Troppi di noi che lavorano nelle diverse realtà della società civile – me compreso – non siamo più il vero motore del cambiamento sociale. Dedicando progressivamente le nostre energie a progettare e rendicontare ai donatori, ci siamo impantanati nella burocrazia. Nel bene o nel male, oggi le più grande ONG appaiono sempre più simili a società multinazionali. Le più grande impiegano migliaia di lavoratori in tutto il mondo e i loro bilanci annuali raggiungono centinaia di milioni. Hanno gerarchie aziendaliste e i loro marchi valgono milioni sul mercato. Salvare il mondo è diventato un grande business.

 

Eppure grande non è sempre male, proprio come piccolo non è necessariamente bello. Ma è l’effetto di queste tendenze sulla cittadinanza attiva che dovrebbe turbarci. Noi – la società civile – siamo stati cooptati in processi economici e istituzionali in cui veniamo beffati e manovrati. La nostra concezione di ciò che è possibile si è ridotta drasticamente. Oggi dimostrare l’utilità di ogni singolo dollaro speso è diventato importantissimo, per questo dividiamo il nostro lavoro in progetti ordinati, scegliamo di condurre solo attività che possono produrre risultati facilmente quantificabili. Per non perdere risorse ci troviamo costretti a evitare approcci o problemi che potrebbero minacciare il nostro marchio o turbare i nostri donatori.

 

E così ci troviamo a rafforzare i sistemi sociali, economici e politici che una volta volevamo cambiare. Siamo diventati parte del problema, piuttosto che la soluzione. Il nostro senso imprenditoriale ci ha guidato verso un’attivismo-light, una versione edulcorata del nostro lavoro reso appetibile al marketing e al capitalismo. Questo approccio non è in grado di minacciare più nessun potere, anzi rischia di soffocare l’attivismo di base creando un pesante mono-culturalismo.
Per realizzare un radicale cambiamento politico, abbiamo bisogno di costruire dal basso. Dobbiamo aiutare le comunità ad organizzarsi e guidare il cambiamento. Abbiamo bisogno di più primavere arabe, ma abbiamo bisogno che sopravvivano e crescano. Dovremmo saper costruire su queste improvvise impennate di energia sociale senza soffocarle. Quando i picchi di protesta sono collegati a un’azione di lungo periodo, i cambiamenti temporanei al potere hanno di gran lunga maggiore possibilità di diventare guadagni permanenti in termini di democrazia, uguaglianza e libertà.

 

Ma come possono riorganizzare la società civile per affrontare queste sfide cruciali?

Abbiamo bisogno di trovare modi migliori per mettere le voci e le azioni delle persone di nuovo al centro del nostro lavoro. La nostra responsabilità primaria non deve essere nei confronti dei donatori, ma verso tutto coloro che lottano per la giustizia sociale. Dobbiamo combattere il corporativismo nelle nostre stesse fila, riconoscere il potere delle reti informali, sfruttare la saggezza della strada e riequilibrare le nostre risorse. Dobbiamo promuovere e proteggere gli spazi civici dove si costruisce solidarietà globale tra le persone partendo dalle organizzazioni di base. Ma tutto questo non dovremmo farlo abbandonando le organizzazioni della società civile che abbiamo creato, ma piuttosto dobbiamo far evolvere queste ONG promuovendo una forte apertura verso l’esterno, verso coloro che diciamo di voler servire.

 

Tutto questo non sarà facile da fare, soprattutto per quelli di noi che devono tenere d’occhio i risultati da presentare ai donatori e raggiungere il pareggio di bilancio. Ma vale la pena di provarci. La società civile deve trovare nuovi principi organizzativi globali, un nuovo paradigma, un modello alternativo. Nessun altro lo farà al posto nostro. Credo che se saremo in grado di cambiare il corso delle cose, se riusciremo a non farci travolgere dalla privatizzazione e dalla tecnocrazia, potremmo riscoprire la vera missione della società civile, quel suo costrutto profondamente umano capace di facilitare e potenziare le relazioni sociali. E sono proprio queste relazioni, la storia ci insegna, che possono davvero cambiare il mondo. (Dhananjayan Sriskandarajah segretario generale di Civicus. Traduzione a cura di redazione)

 


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  1. Sono d’accordo col segretario generale della rete Civicus, c’è troppa burocrazia che, oltre a ridurre l’azione diretta degli operatori delle organizzazioni di cooperazione a favore dei beneficiari delle stesse azioni, produce costi aggiuntivi non facilmente immaginabili. Proviamo a pensare solo alla catena di attori che intervengono in un processo di creazione di fondi messi a disposizione dei programmi umanitari, siano questi europei, nazionali o regionali; le ore spese dalle commissioni e da tutto l’indotto per la definizione dei programmi, la preparazione dei bandi di partecipazione ai progetti, l’analisi ed approvazione dei progetti, l’esecuzione e la rendicontazione degli stessi sono veramente una montagna di cui nessuno di noi conosce la grandezza. E’ il solito problema, chi divide la torta si prende la fetta più grande, solo che in questo caso c’è un effetto a cascata e alla fine il povero beneficiario di tutta questa azione resta ancora più povero. Ritengo che occorre riflettere su questo fenomeno e cercare di contrastarlo cercando di creare delle regole più giuste.

  2. Ne ho sentite a tonnellate di critiche di questo tipo. E’ l’ennesima critica che non porta con sè alcuna soluzione, nessuna proposta. Questa è pura ideologia. I rendiconti devono tornare, altrimenti non ci sono donatori e non ci sono soldi per fare le cose. Invece che fare critiche trite e ritrite che non portano a nulla di nuovo – i contenuti di questa lettera sono vecchi di anni e sempre meno attuali – che facciano proposte concrete questi signori. Per quanto riguarda la dimensione di piccolo o grande io mi metto nei panni di chi dona: se dono 100, quanto va in costi di struttura (sacrosanti sia chiaro) e quanto arriva ai beneficiari? quanto va in sensibilizzazione? non vado oltre ma basta con sterili polemiche. Le ong sono troppe? bene così, significa che c’è attivismo e che la sensibilità verso certi temi cresce.

  3. Concordo, gli argomenti di Civicus non sono nuovi. Eppure in fondo c’è sempre un nodo che non si riesce a sciogliere che è cruciale nella natura non governativa degli attori della società civile che operano nel mondo della cooperazione. Agli albori le ONG si caratterizzavano dall’essere indipendenti dai governi e dalle loro politiche (quindi Non Governative), per garantire questo limitavano o addirittura rifiutavano i finanziamenti governativi. Questa indipendenza ha dato alle ONG la forza e la credibilità di prendere posizioni forti e importanti contro i poteri politici, economici e finanziari.

    Negli anni abbiamo accettato tanti compromessi per sopravvivere e diventare sempre più grandi e strutturati. Concordo pienamente sul fatto che oggi le ONG siano sempre meno in grado di minacciare i poteri forti. Essere Non Governativi oggi vuol dire anche essere indipendenti dal marketing.

  4. … e potete notare che le ong’s di tutto il mondo e, specialmente quelle italiane, sono già pronte per partecipare al grande circo demagogico che l’ONU offrirà con il suo “POST-2015”.

    Le nostre ong’s, infatti, non vedono l’ora di lanciarsi nel grande business che arriverà con il “Post-2015” (e senza neanche porsi la domanda sul perché del sostanziale fallimento del Millenium Goals).

    SI VERGOGNINO!!!

  5. Grazie per questa provocazione.

    Ricordo quando alla metà degli anni ’80 mi sono affacciato al mondo delle ONGs italiane, assistendo a liti al calor bianco se accettare o meno i progetti affidati dal MAE (era appena passata la “nuova” legge di cooperazione). Ho capito rapidamente che c’era una folto gruppo di ONG che molto pragmaticamente non si sono fatte soverchi problemi in fatto di principi, ed altre (più “deboli” economicamente), che invece al pragmatismo dominante hanno non hanno voluto “sacrificare” una genuina coerenza dei principi di indipendenza, qualità e soprattutto vero e proprio parternariato con le realtà associative e produttive popolari nei paesi del c.d “Sud”.

    Oggi quali sono i risultati ? “Noi – la società civile – siamo stati cooptati in processi economici e istituzionali in cui veniamo beffati e manovrati … dimostrare l’utilità di ogni singolo dollaro speso è diventato importantissimo … per non perdere risorse ci troviamo costretti a evitare approcci o problemi che potrebbero minacciare il nostro marchio o turbare i nostri donatori.” Vero, anche se spiacevole; anche io ho visto con disappunto questi atteggiamenti da parte di grandi e prestigiose ONG (e non solo ONG, ovviamente).

    Critica inconcludente ? Per chi non si fa domande sulle cause remote ed effettive, ma ha fede negli attuali meccanismi economici e sociali dominanti, effettivamente la lotta all’emarginazione ed alla miseria che affligge milioni di persone è un’azione buona, che se ben condotta rende anche bene. E tanto basta.

    Ma se mettiamo la persona umana, con la sua piena dignità, al centro del nostro agire, allora spostiamo di 180° il nostro obiettivo: l’orizzonte non è più quello determinato dalla generosità (talvolta pelosa, ma spesso comunque interessata anche se a fin di bene) dei donatori, ma dalla necessità e dalle aspettative di coloro che sopravvivono ai margini del sistema, o al di fuori di esso. Se si riscoprisse il principio della fraternità universale (non certo la potente fratellanza massonica che esclude), avremmo tutti insieme il coraggio e la forza di portare anche i nostri finanziatori (almeno quelli sinceri e di buona volontà) verso questa visione dove “il bene fatto” non diventa più una pretesa od un credito da esigere: questo è un processo che talvolta impone dei “No”, chiede appunto coerenza e quindi fatica e temperanza, pazienza e coraggio, ma alla fine cambia davvero il sistema dei rapporti iniqui, ed arricchisce mutuamente tutte le parti in causa.

    Non vendiamoci per qualche comodo vantaggio di oggi, ma abbiamo il coraggio di aprirci su orizzonti nuovi, e soprattutto apprezziamo chi resta coerente con i propri principi, anche a costo di rinunce e sacrifici; chi paga di persona merita sempre stima ed apprezzamento, più di coloro che vicono schiacciando gli altri !!!

    Grazie, e buon lavoro a tutte e tutti noi.

    1. Veramente Civicus non ha fatto una critica come fosse un terzo (che non è) rispetto al mondo in oggetto: ha piuttosto condiviso “internamente” ad un gruppo di leaders della società civile organizzata alcune preoccupazioni.
      Actionaid ha ritenuto di sottoscrivere i risultati dell’incontro di Rusters in Sudafrica, partendo dal presupposto che serva concentrarsi maggiormente sulla volontà di produrre trasformazioni durevoli della società, piuttosto che passare la vita a compilare logframes per accontentare donatori o un pubblico che pensa che la lotta all’esclusione sociale si faccia con la somma di decine o migliaia di progetti misurabili in termini di output.
      Siccome le trasformazioni sociali avvengono negli anni e sono condizionate da molteplici fattori, sarebbe un peccato se dallo sforzo di Rusters che è propositivo, profondamente politico… se ne distillasse solo l’impressione di una critica a quella che alcuni chiamano “development industry”.
      No, non credo che chi ha sottoscritto volesse alimentare una critica di poco costrutto se non di poco conto.
      L’intenzione è quella semai di reclamare e guadagnare un ruolo piu’ profondamente trasformativo, evidentemente non richiudibile in quello di esecutori di programmi pensati altrove, lontano dai cittadini (o ridicolmente tesi a misurare risultati di azioni invece che cambiamenti di programma).

      E’ chi pensa che le organizzazioni delle società civile siano buone solo per sostituire a basso costo il ruolo dello stato … che fa perdere la “guerra” contro povertà ed esclusioen sociale.
      Certo se le formazioni sociali si accontentano di sostituire lo stato che si ritira… la “guerra” è persa in partenza. Se invece si percepisce il ruolo di quegli attori come ruolo di stimolo alla formulazione di soluzioni, di politiche, di normative che poi esegue lo stato (principale ed ultimo portatore di doveri), allora esiste oggi ed esisterà sempre un ruolo fecondo per ONG ed altre forme organizzate di impegno civile.
      Tra l’altro questo vale esattamente secondo le stesse dinamiche in un’Italia che sonnecchia come in un qualsiasi paese asiatico o africano: l’esclusione sociale si combatte alla radice solo con il lavoro radicato sul territorio attraverso la partecipazione dei cittadini… Un po’ meno attraverso i logical frameworks e i rapporti ai donatori, ovviamente.
      Comunque… vediamo di non andare dietro a quella che pare presentata come una autoflagellazioen dei leaders della società civile organizzata. L’incontro in Sudafrica non è stato questo ed invece ha prodotto uno stimolo a riaquisire un ruolo vero e profondo, ben al di la del sostegno ad uno stato che appare sempre piu’ debole ma va comunque considerato responsabile ultimo della tutela dei diritti delle persone.
      La lotta contro la poverta’ è una lotta delle società (nel loro insieme) per ovviare a chiiare disparità di potere tra i suoi componenti: non è dunque una battaglia delegabile in “outsourcing” ad attori privati come le ONG. Sono ovvietà, ma meglio ripeterselo per non travisare i termini della discussione.
      Marco

  6. Credo tutti sappiamo bene quali siano i pro e i contro di quadri logici, gabbiette da rendiconto e tutti i binari su cui bisogna correre. Credo anche però siano poche le associazioni che vivono senza dover rendere conto di quanto spendono. Credo il problema sia di visione. Io (sono legale rappresentante di una piccola associazione con staff all’osso) credo la cooperazione di intervento abbia finalità curativa, di redistribuzione e di contaminazione reciproca. Credo nella solidarietà e nella forza del confronto. Non credo con i progetti di cooperazione si possa cambiare il mondo, volo molto più basso, forse anche a causa delle dimensioni dell’associazione che insieme ad altri faticosamente faccio galleggiare. Non credo in italia nessuna associazione (ONG), nemmeno fra le più grandi, sia in grado di influenzare minimamente le scelte politiche, forse si riesce a sensibilizzare qualcuno. Mi chiedo però: è possibile fare un distinguo fra piccole associazioni e le grandi ONG multinazionali, i cui manager spesso nemmeno sanno come e dove trovano i soldi che possono spendere? O bisogna dire che tutti hanno perso scommesse, che tutti siamo dei peracottai? chi ha scritto la lettera quanto è stato fuori dal sistema in questi anni? Ma soprattutto siamo sicuri che stare fuori dal sistema e fare i “puri” significhi riuscire a cambiare le cose? questa è ideologia.

    Riguardo alla futura legge sulla cooperazione, aspetto e sospendo il giudizio. Penso gli interessi commerciali di un’azienda o di una finanziaria siano quasi mai conciliabili con i nostri, soprattutto se il nostro operato segue determinati principi. Staremo a vedere come verranno redatti i regolamenti attuativi e il potere che avrà la nuova Agenzia (se la faranno) e che ruolo verrà riservato alle ong nei progetti (di guida? di semplice partner? di becero intermediario?).

    Non vado oltre e ringrazio per il confronto.

    Giovanni

  7. In risposta su twitter ho pubblicando un’avvertenza disegnata dal nostro Maestro, prof. Ettore Tibaldi nel 1996: pic.twitter.com/qF43kamObR
    In modo meno sintetico, la risposta alla vostra domanda è si non ce la stiamo facendo: le disuguaglianze crescono e dei cambiamenti climatici stiamo solo ora prendendo coscienza. E non ci può consolare che altre battaglie le stiamo vincendo.
    Ma a me pare che l’invito di Civicus sia mettere al centro della nostra azione la partecipazione, il protagonismo dei beneficiari, appunto uno degli insegnamenti che Ettore ci ha lasciato in eredità. Quindi si: dobbiamo provarci a far crescere le relazioni sociali basate sul dono e il capitale sociale di fiducia di cui il pianeta ha bisogno.
    Ciò che temo è che in Italia l’invito di Civicus sia frainteso e distorto – come ha già scritto Marco De Ponte – e si trasformi nella solita “retorica del volontariato” come la chiama Giovanni Moro. E’ vero che un gruppo spontaneo formato esclusivamente da volontari dà la migliore risposta in termini di relazioni in un ambito micro, ma se poi si vuole essere efficienti in campi più ampi e soprattutto efficaci servono discipline organizzative. Ed è solo dotandocene che possiamo mettere in campo anche gli antidoti all’autoreferenzialità di cui tutti soffriamo.

  8. E’ sempre importante non smettere di riflettere e interrogarci sul modo di essere delle nostre ONG (e della società civile nel suo complesso direi perché queste riflessioni non riguardano certo solo le ong), ma è pur vero che sono 20 anni che sento questo stesso dibattito ripetersi e le considerazioni di Sriskandarajah non aggiungono moltissimo di nuovo.
    Io credo che le trasformazioni più significative del nostro tempo, inevitabilmente legate alla crisi economica globale che stiamo vivendo, stiano nella progressiva diminuzione della distanza tra profit e non profit, nella nascita di una cultura nuova dello stesso profit, permeata di sociale, di cui la teoria del social business e le sue applicazioni concrete sono testimonianza, ma anche lo sviluppo di quell’ampio e vitale sottobosco di iniziative economiche e di sviluppo locale che vanno dalle (spesso fraintese e sopravvalutate) start up fino ai makers e i fablab, sempre più diffusi negli stessi pvs.
    Un protagonismo sociale che certo spesso nasce dalla necessità individuale di sopravvivere, ma che si diffonde attraverso la rete con modalità nuove, fregandosene della distinzione tra profit e non profit, e cercando reali soluzioni sostenibili a problemi sociali. Io vedo in questo ambito una interessante possibilità di riflessione per una cooperazione internazionale davvero nuova, smettendo di pensare alle ong sempre nei vecchi schemi di catalizzatori di donazioni, pubbliche e private, e realizzatori di progetti, con tutti i vincoli e la perdita di significato ben descritta nell’intervento di Sriskandarajah.
    Il discorso è molto ampio e so bene che non si può fare in modo esaustivo in un post ma sono anche certa che finché rimaniamo dentro lo schema classico non usciremo mai dal dibattito ventennale che ci assilla

  9. Il tema è veramente ampio, e il mondo delle ONG è talmente variegato che è praticamente impossibile fare una “somma algebrica” di grandi e piccoli, “buoni” e “cattivi”..
    Mi limito perciò ad un esempio.
    Quando ho partecipato alla redazione, in assemblea, dello statuto della Rete dei Volontari Rientrati (di cui negli anni ho perso le tracce), da ex volontario FOCSIV in Costa d’Avorio, proposi fra le diverse finalità, un punto che venne votato a larga maggioranza: “COSTRUIRE UNA MENTALITA’ CRITICA VERSO IL MODELLO SOCIO-ECONOMICO DOMINANTE”.
    Se non fosse abbastanza chiaro, si tratta di contestare, in tutti i modi possibili, il capitalismo globalizzato.
    Non mi illudo che il Terzo settore possa sostituire la politica. Anzi. Però potrebbe fare da stimolo in un momento storico di latitanza (della politica).
    Un esempio attualissimo,e un invito, in chiusura.
    L’Unione Europea sta per approvare il TTIP con gli Stati Uniti. Se non sapete di cosa si parla, è giusto cominciare a porsi degli interrogativi.
    E’ il Trattato transatlantico di libero commercio, è la vittoria finale delle multinazionali sui governi. Dovremmo cominciare a farci sentire forte e chiaro, per spingere la politica a opporsi.
    L’invito (per cattolici e non): se leggete, sul tema della cooperazione e dello sviluppo, la “Populorum Progressio” di Paolo VI (sono testi molto brevi, si leggono in un paio di ore)e la “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI, capite come siamo andati indietro,e capite meglio cosa vorrei dire.
    Meno male che è arrivato papa Bergoglio, a far capire (libero pensiero mio) che c’è bisogno di gente come Evo Morales, non come Matteo Renzi.

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