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Ma le ONG in Italia esistono ancora?

Un lettore del blog ci ha scritto alcuni giorni fa ponendo una domanda apparentemente banale: “Alla luce della legge 125 che riforma la Cooperazione allo sviluppo, le ONG in Italia esistono ancora?”. La risposta potrebbe sembrare altrettanto banale e scontata: “Certo che esistono, sono quasi duecento le organizzazioni che detengono questa denominazione”. Eppure andando a ragionare sugli effetti della riforma e sulle dinamiche che questa metterà in campo nel settore della Cooperazione la risposta si complica parecchio e potrebbe rivelarsi problematica.

 

Partiamo dall’inizio, l’espressione “organizzazione non governativa” è stata menzionata per la prima volta nell’ambito delle Nazioni Unite: l’articolo 71 della Carta costituzionale dell’ONU prevede infatti la possibilità che il Consiglio Economico e Sociale possa consultare “organizzazioni non governative interessate alle questioni che rientra nella sua competenza”.
Le ONG sono descritte come organizzazioni non aventi fini di lucro, indipendenti dai governi e dalle loro politiche che ottengono almeno una parte significativa dei loro introiti da fonti private, per lo più donazioni. I due caratteri essenziali per definire un’organizzazione non governativa di cooperazione allo sviluppo, sono quindi costituiti dal carattere privato, non governativo dell’associazione, e da quello dell’assenza di profitto nell’attività. Caratteristica di queste organizzazioni è una forte spinta ideale, finalizzata all’obiettivo di contribuire allo sviluppo globale dei paesi socialmente ed economicamente più arretrati.

 

In Italia le ONG sono riconosciute già nella legge 49/87 all’articolo Art. 28 (Riconoscimento di idoneità delle organizzazioni non governative). Qui si dice che le organizzazioni non governative, che operano nel campo della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, possono ottenere il riconoscimento di idoneità ai fini di cui all’articolo 29 con decreto del Ministro degli affari esteri. Per un certo periodo esisteva un’apposita Commissione per le organizzazioni non governative presso il MAE.
Fino al 31 dicembre scorso effettivamente le ONG erano riconosciute tali e rese idonee dal Ministero degli Esteri con specifici decreti di idoneità. Potevano quindi denominarsi come ONG grazie all’idoneità di organizzazione non governativa che un’istituzione gli dava. Grazie a questa idoneità venivano riconosciute anche come “Onlus di diritto” dall’Agenzia delle Entrate.

 

Oggi la situazione è un po’ cambiata, la legge 125 parla di organizzazioni della società civile e di altri soggetti senza finalità di lucro nominando tra questi anche le ONG al comma 2 dell’articolo 26. La legge prevede la costituzione di un elenco di soggetti pubblicato e aggiornato periodicamente dall’Agenzia che includerebbe le organizzazioni ritenute eleggibili nel sistema della Cooperazione italiana (ONG, cooperative, associazioni, fondazioni, ecc).

 

Ma torniamo alla domanda del nostro lettore che continua così: “Io faccio parte di una piccola associazione che porta avanti attività di cooperazione con un paese africano e non abbiamo mai avuto l’idoneità ONG ex legge 49/87 dal MAE, ma cosa ci vieta oggi di denominarci come ONG?”. In sintesi il discorso è molto chiaro, un’associazione che fa attività di cooperazione si può autodefinire ONG? e se no, chi deve dargli la “patente” di ONG?

 

Oggi l’Agenzia per la Cooperazione o il MAECI non daranno più questo patentino venendo a mancare il decreto di idoneità delle ONG ex legge 49/87. I decreti attualmente emessi dall’AICS parlano di “Iscrizione nell’elenco delle organizzazioni della società civile e di altri soggetti senza finalità di lucro di cui all’articolo 26 della legge 125/2014”.

 

A questo punto l’acronimo ONG potrebbe essere considerato un appellativo che qualunque organizzazione può darsi visto che non compete a nessuna istituzione una verifica su questa denominazione. Non a caso il nostro lettore ci informa che sono decine le associazioni italiane che si presentano al pubblico e si denominano come ONG pur non avendo mai avuto nessuna idoneità dal MAE in passato e senza essere attualmente registrate nell’elenco della legge 125/2014.

 

Su questo chiediamo la collaborazione di voi esperti per rispondere ai dubbi del nostro lettore! La sua piccola associazione può tranquillamente denominarsi come ONG?

 


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  1. Confermo l’ultima affermazione. Anche a me è capitato di vedere diversi siti di associazioni, spesso piccole, che si denominano come ONG per essendo semplici associazioni onlus che non hanno mai avuto l’idoneità del MAE. Non ho una soluzione alla domanda ma sono molto interessato alla risposta?
    grazie, saluti

    1. … non sarà solo una questione di ignoranza da parte di queste associazioni che – a torto – si autodefiniscono ONG? Sostengo questa teoria perché nei siti di queste associazioni spesso esiste una grande confusione terminologica: progetto e programma, donazione e finanziamento, ONG e onlus vengono usati a sproposito, come se fossero sinonimi.

  2. Aggiungo una domanda alla vostra riflessione che mi sembra più che appropriata. In diversi paesi dove opera la ONG per cui lavoro le autorità locali ci chiedono un documento di riconoscimento come ONG da parte delle nostre autorità nazionali per poter operare in loco. Se prima poteva valere a questo titolo il decreto di idoneità di ONG del MAE, oggi quale documento riconoscerà che una organizzazione è una ONG? A quanto capisco i decreti che sta emettendo l’AICS si limitano a dire che l’organizzazione è iscritta a un elenco, nulla più.

  3. Forse bisognerebbe pensare a cosa voglia dire oggi, e storicamente, ONG. Non in funzione alle prassi burocratiche, ma in relazione al concetto politico di base…

  4. Il termine ONG nel senso di soggetto riconosciuto specificatamente dallo stato Italiano esiste esclusivamente nel nostro paese. In qualunque altro paese al mondo (con le dovute eccezioni), tutte le organizzazioni private, non a scopo di lucro, indipendenti dalle istituzioni governative, si definiscono NGO (Non Governmental Organizations), senza bisogno di alcun timbro o patentino, ma semplicemente perchè, come dice il nome stesso, sono organizzazioni non legate al governo ma che svolgono funzioni per la società. A parer mio, è sensato che finalmente anche in Italia funzioni così. Se si vuole tenere il vecchio status di ONG, diamogli un altro nome.

  5. Per me ha completamente ragione la persona che si chiede “chi ci impedisce di definirci ONG?”. La risposta è nessuno!

    In tutto il mondo, ONG o meglio NGO (in inglese) è usato da qualunque organizzazione. Non c’entra il fatto di lavorare all’estero o nella cooperazione/umanitario, aiuto allo sviluppo/ ecc. ONG appunto definisce il carattere “non governativo” e basta. Per capirci, “Amnesty International” è una NGO, “Green Peace” e’ una NGO, “Save the Children” e “COOPI” sono NGO, ma anche il “Palestinian Youth Union” (organizzazione palestinese) è una NGO. Tutte sullo stesso livello. Questo vale per tutte le istituzioni che contano nel sistema internazionale: UN, UE, DFID, USAID, GIZ, etc.

    Per essere ONG non conta essere piccoli o grandi. L’unica differenza che di solito si fa è tra International NGO (INGO) e Local NGO, o a volte, National NGO. Per organizzazioni, più piccole e più localizzate si parla spesso di Community Based Organization (CBO), per cui la Proloco di Ozzano dell’Emilia potrebbe essere una CBO, ma anche una NGO, ma non una INGO. Ma queste sono solo definizioni dettate dalla capacità operativa della singola organizzazione.

    Se un’organizzazione ha i criteri minimi di status giuridico (a seconda delle leggi del paese che definisco il carattere “non profit” della stessa), il tipo di gestione organizzativa (“governance” chiara, ruoli definiti, statuto/principi non discriminatori, la non appartenenza politica, ecc.), di gestione economica (una buona amministrazione contabile, ecc.). Tutte le istituzioni sopra citate riconosceranno che sei una NGO. Per le organizzazioni italiane, quindi, non serve l’Albo MAE, ma basta avere un certificato di ONLUS per potersi definire NGO all’estero, e per esempio poter tranquillamente accedere a fondi EU. Infatti, varie ONLUS italiane accedono da anni a fondi EU/EC per attività in paesi terzi senza essere invece riconosciute al MAE.

    In Italia abbiamo le ONLUS e basterebbero ampiamente. Nel sistema inglese. L’equivalente della legge sulle ONLUS è la legge per le Charities. Se sei riconosciuto come Charity, puoi accedere a fondi pubblici e avere particolari sgravi fiscali. Ovvio che poi DFID non ti darà mai 10 milioni di sterline per lavorare in Liberia su EBOLA, se non dimostri di avere una capacità manageriale, logistica, amministrativa e tecnica per potere ottenere i risultati sperati.

    Del resto, l’esistenza di un albo al MAE si giustificava non per dare un “patentino” che legittimasse alcune organizzazioni a chiamarsi “ONG”, ma solo per certificare che quelle organizzazioni potevano accedere a determinati fondi stanziati dal MAE.

    Ma, a mio parere, la legge 49/87 era in gran parte sbagliata su questo tema, perché dava al MAE la possibilità di creare una specie di albo, quando invece avrebbe solo dovuto definire dei criteri per assegnare i fondi pubblici (e magari dei seri controlli!), come fa la UE e molti altri donatori. La nuova legge ripete lo stesso errore. Invece di puntare da subito su un sistema aperto e trasparente di Call/bando, sta ricreando un altro Albo.

    L’Albo va bene per una situazione come ECHO, la lista dei partner ECHO, quelli che hanno ottenuto il PFA (Partnership Framework Agreement) è l’equivalente dell’albo MAE, ma la differenza sta che chi lavora con ECHO in sostanza fa da “contractor” (appaltatore), ECHO agisce sulle emergenze globali e delega a dei “partner” (NGOs) l’operatività in loco, si tratta in sostanza di contratti di appalto per determinati interventi di emergenza. Quindi il PFA permette di fare dei contratti velocemente, visto il carattere di emergenza dell’intervento di ECHO.

    In questo senso, l’Albo MAE (o MAECI) sarebbe giusto solo per accedere a quelli che erano i fondi di emergenza del MAE, che erano l’equivalente dei fondi ECHO (sebbene infinitamente meno), e che erano affidati appunto con la logica del “contractor” alle ONG operanti nei vari paesi.

    Ma per gli altri fondi (i vecchi “promossi” per intenderci), quelli che la legge 49 intendeva come sostegno alle attività promosse dalla società italiana in senso lato (quella che ormai i più chiamano “Società Civile”) non c’è nessuna ragione di avere un albo, molto meglio avere dei criteri di accessibilità chiari e dei controlli puntuali sull’operato.
    Le “Call for Proposals” della UE, non sono poi così differenti dal sistema di priorità areale e tematico che già il MAE aveva introdotto da qualche anno e che probabilmente sarà mantenuto anche in futuro.
    Quindi a cosa serve l’Albo?
    Ad evitare di dover fare i controlli sui requisiti ad ogni bando/call?
    Certo, ottimo, ma allora che senso ha che siano solo poche centinaia i soggetti iscritti?
    EuropeAID ha il sistema di registrazione PADOR, quello è un sistema per garantire che si abbiano i requisiti minimi, ma la registrazione è quasi automatica, non c’è bisogno di chissà quali procedure.

    La cosa importante dovrebbe essere che chi opera male non dovrebbe più ricevere i fondi.

    Mi sembra che ci sia un errore di filosofia alla base.

    Il problema è che prevale la logica del “circolo chiuso”. Nel nostro paese sembra che si vogliano sempre difendere i “piccoli spazi”. In regime di risorse limitate i soggetti che competono per quelle risorse preferiscono/tendono a limitare l’accesso da parte di altri/nuovi soggetti. E così fanno le ONG italiane. Ma è una strategia perdente.

    Per anni e anni ho sentito dire che in Italia non si riusciva a fare raccolta fondi tra i privati. Poi, sono arrivate MSF, Action Aid, Save the Children, che stanno raccogliendo più fondi tra i privati cittadini italiani di quanti ne distribuisca il MAECI. Ma questo è un altro discorso!

    Cordiali saluti,
    Massimo

  6. Già molte risposte sono emerse dal crescendo degli interventi precedenti, tutti interessanti. Il tema proposto merita di essere approfondito. Cerco di farlo anch’io. Vado per punti, in modo molto schematico, limitandomi a quelli più vicini alla domanda iniziale posta.
    1. La legge 125 sulla “cooperazione internazionale per lo sviluppo” ha voluto dare un segnale innovativo rispetto al passato, aprendo a tutti quei soggetti della società civile senza finalità di lucro che possono contribuire ad una cooperazione di qualità, stabilendo rapporti di partenariato conformemente alle finalità chiaramente espresse nei primi articoli.
    2. Aprire alla pluralità dei soggetti non ha mai voluto, né potava significare negare le specificità e le positività già esistenti che sono state in particolare espresse dalle Ong di sviluppo e umanitarie, che da decenni hanno rappresentato, in significativa parte, le potenzialità della cooperazione italiana, anche nei suoi periodi di paralisi.
    3. In Italia, il termine Ong ha negli anni indicato le Ong di sviluppo e umanitarie, anche se, per definizione, tutti i soggetti della società civile sono organizzazioni non governative. Le Ong di cui parla l’articolo 26, comma 2, lettera a), sono innanzitutto quelle che lo stesso ministero ha negli anni riconosciuto idonee alla cooperazione, approvandone e finanziandone i progetti ritenuti validi; ma sono anche tutte quelle che dimostrino di essere “specializzate nella cooperazione allo sviluppo e nell’aiuto umanitario” che hanno scelto come attività costitutive, piccole o grandi che esse siano.
    4. Sarebbe opportuno che anche in Italia il termine Ong si riferisse a tutte le organizzazioni non governative non profit dedicate al bene comune, come ovunque nel mondo, definendo Ong di sviluppo e Ong umanitarie quelle dedicate e specializzate.
    5. L’iscrizione dei soggetti della società civile non profit nell’ “apposito elenco pubblico” previsto dal successivo comma 3 non conferisce alcuna idoneità ma attesta che sono state “verificate le competenze e l’esperienza acquisita nella cooperazione allo sviluppo” e che, “con cadenza almeno biennale” è rinnovata la “verifica delle capacità e dell’efficacia dei medesimi soggetti”. E ciò anche per garantire la relativa attestazione nel caso fosse richiesta da governi o istituzioni.
    6. L’iscrizione all’elenco – cioè la verifica delle competenze, delle capacità e dell’efficacia di tali soggetti – è funzionale alla possibilità di ottenere finanziamenti pubblici per i progetti di cooperazione e le attività previste dalla legge, secondo le modalità definite nei bandi pubblici periodici. All’opzione di togliere i finanziamenti ai soggetti dimostratisi incapaci è stata preferita quella di saperlo prima, per quanto possibile, evitando così di finanziarli e sprecare risorse.
    La comunità delle Ong di sviluppo e umanitarie – quelle cioè specializzate nella cooperazione allo sviluppo e nell’aiuto umanitario, attività costitutive fondate sui valori e principi di giustizia, umanità, solidarietà, fratellanza, pari dignità di ogni essere umano, rispetto delle diversità, dialogo, convivenza, pace – esiste eccome. Le leggi si limitano a riconoscere questa esistenza, non la creano né possono farlo. E’ una comunità preziosa, che deve riuscire ad esprimersi e farsi sentire come tale, aprendosi, valorizzando e collaborando ampiamente con tutti gli altri soggetti, ma non offuscandosi indistintamente con essi, quasi rinunciando alla propria specificità e alla propria storia, di cui deve invece continuare ad essere fiera. Non sempre è riuscita, ma a mio avviso è suo dovere continuare a farlo.

  7. Io sono d’accordo con quanti dicono che nessuno può impedire ad una organizzazione di definirsi Ong. Essere Onlus, APS, SRL, Spa etc. significa corrispondere a specifiche leggi che definiscono a quale titolo ci si può o addirittura si deve definirsi tali. Nulla di tutto questo esiste per la Cooperazione. Nemmeno la legge 49/87 dava la definizione di Ong, al contrario diceva che solo quelle organizzazioni non governative che godevano di determinati requisiti potevano ottenere l’idoneità e quindi i contributi e gli altri benefici previsti nella legge. Cioè diceva che solo una parte delle Ong poteva avere l’idoneità. Non era l’idoneità a conferire lo status di Ong (ciò malgrado che l’uso corrente dicesse il contrario).
    Invece la legge 125/14 definisce Ong un particolare soggetto della cooperazione nell’ambito delle voci di potenziali soggetti della società civile che sono iscrivibili nell’Elenco. Se l’elenco fosse diviso per lettere distinguerebbe le Ong dalle altree categorie, ma per ora l’elenco è generico e tutti possono iscriversi provenienti o meno dalle Ong idonee della legge 49/87. Perciò per ora tutti possono continuare ad usare per se stessi il termine Ong nel significato proprio dell’acronimo e nel significato internazionalmente attributo senza violare nessuna norma o fare falsa comunicazione.
    Giancarlo

  8. Mi accodo in pieno all’intervento di Massimo, soprattutto quando sostiene che chi lavora male (per incompetenza, incapacità, malaffare o altro) non dovrebbe più ricevere fondi pubblici (e possibilmente neppure privati)! Ci sono tante ONG che hanno usato fondi per finalità completamente diverse da quelle che era la destinazione effettiva! Ebbene, sono ancora operative. Impedire che queste cose accadano sarebbe la vera novità (positiva) su cui la “neonata” AICS dovrebbe investire.
    Altro elemento importante, secondo me, è il rispetto di certi principi umanitari a base universale. Come può un Paese che non rispetta, per ideologia, la libertà personale di certi gruppi (penso ad esempio alla componente LGBT o allo stesso genere in senso lato)essere inondato di fondi UN, UE, MAE etc. etc.? E’ davvero paradossale che molte ONG e altrettanti organismi umanitari internazionali si professino promotori dei diritti umani e poi accettino di iniettare fondi in quei paesi dove magari una persona può finire in carcere o addirittura appesa ad una corda solo perché magari è attratta da qualcun’altro del suo stesso sesso! Evidentemente anche la cooperazione segue dinamiche che poco hanno a che vedere con i principi che enuncia.

    Cordiali saluti a tutti i lettori

  9. Il termine ONG è un termine generico e n tal senso assimilabile a “organizzazione non profit”. Però quando un termine si definisce al negativo in genere non definisce nulla. Come è stato ricordato il termne è stato introdotto nella Carta delle Nazioni Unite per identificare i soggetti – appunto non governativi – con cui quell’organizzazione avrebbe stablito relazioni privilegiate (poi dettagliate e definite successivamente dall’ECOSOC e distinte in tre categorie di “Status consultivo”). Una curiosità: tra i criteri ci sono tra l’altro della rappresentanza degli associati, delle democrazia, etc. ma NON quello di essere “non lucrative” (non profit) anche se nella pratica lo sono tutte. Le ONG di sviluppo sono una categoria particolare di ONG caratterizzate dal loro intervento nei paesi più poveri per lo sviluppo, appunto. In Italia la confusione nasce dal fatto che la legge n.49/87 fece specifico riferimento alle “Ong di cooperazione allo sviluppo” (prevedendo l’istituto dell’idoneità) e rimase l’unico testo di legge a usare il termine ONG. Per tanto nel linguaggio corrente e dei media è invalso l’uso erroneo del termine ONG come sinonimo di “ONG di cooperazione allo sviluppo”, ma è una questione tutta e soltanto italiana. Per chi fosse interessato discuto ampiamente la terminlogia rigurdante le ONG, le organizzazone della soictà civile, del non profit e di tutte le varianti sul tema in un apposito capitolo del libro scritto con Daniele Alesani “Management of International Institutions and NGOs”, Routledge, 2013 https://www.routledge.com/products/9780415706650

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