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Non solo burocrazia, la UE riscopre l’importanza del dialogo interculturale nella cooperazione

Da diversi mesi ormai il dibattito sul nuovo ciclo della cooperazione allo sviluppo a livello internazionale sembra un po’ in stand-by; da un lato c’è l’attesa che il settore privato profit muova le sue prime mosse e faccia vedere il suo tanto decantato potenziale nella lotta alla povertà e dall’altra ci si chiede se e come le urgenze sul fronte migrazioni potranno incidere sulle politiche di cooperazione. Ma la nuova visione della cooperazione non si limita all’arrivo degli attori privati. Ci sono tante sfide da affrontare su diversi fronti per interpretare al meglio lo spirito universalmente condiviso degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) e superare il paradigma del passato. Una delle più rilevanti, perché si tratta di una sfida anche culturale, è il passaggio dalla dinamica donatore-ricevente alla dinamiche di vera partnership. E’ forse uno degli obiettivi più difficili da raggiungere e non lo si può certo fare a suon di policy paper, direttive e procedure interne.

 

A mettere in agenda un percorso specifico sul dialogo interculturale è la Commissione Europea o meglio la Direzione Generale che si occupa di Cooperazione e Sviluppo. A Devco sono convinti che per avere successo in un percorso di partnership servano forti competenze interculturali soprattutto ora che la cooperazione è destinata ad essere sempre più uno scambio, piuttosto che un aiuto. A dirlo è una senior office di Devco, Virginia Manzitti, che individua in modo autocritico i limiti mostrati dall’Europa nella sua azione all’estero plasmata sul modello culturale da “donatore” che in molti casi ha reso impossibile il dialogo e la partnership con gli attori locali. E non basta certo lavorare all’estero per acquisire competenze interculturali, anzi, basti pensare al funzionario medio di un’organizzazione internazionale che lavora in Africa. “Non siamo ben preparati e attrezzati per affrontare le differenze culturali e la diversità – ammette la Manzitti – e a volte il dialogo politico non riesce proprio a causa di lacune o barriere di comprensione”.

 

Per questo alla Commissione stanno studiando un percorso apposito per lo staff delle delegazioni UE, un kit che comprenderà formazione in comunicazione interculturale volta a migliorare la coesione interna e le capacità delle risorse umane di interagire con diversi background culturali e linguistici. “La diversità culturale, se gestita correttamente, migliora le prestazioni e l’innovazione”, ha detto Manzitti. “Ma per raggiungere questi risultati deve essere adeguatamente supportata.”

 

 

Certo, sarebbe interessante se questi percorsi formativi fossero destinati non solo ai funzionari europei ma anche ai politici, soprattutto a quelli che frequentano Bruxelles. Leggere che il dialogo interculturale è nell’agenda di Devco è sicuramente importante ma stride rispetto a quanto stiamo vedendo avvenire negli ultimi vertici europei, soprattutto quelli che dovrebbero costruire la cosiddetta “New Migration Partnership”. La proposta fino ad ora sul tavolo ripercorre per lo più vecchie strade. La UE pretende per esempio che i paesi africani trattengano i profughi in cambio di pochi fondi nuovi e continua a farsi percepire come il donatore che potrebbe sborsare aiuti e fondi di cooperazione ai più meritevoli.

 

L’approccio non sembra proprio quello della partnership e neanche sembra incarnare il nuovo paradigma della cooperazione nel quadro degli SDGs. A lamentare questi limiti, per una volta non sono solo le ONG e la società civile. Da parte italiana bisogna segnalare che, almeno a parole, il VM Mario Giro si è detto insoddisfatto della direzione dell’ultimo vertice europeo proprio per la carenza di coraggio e di volontà politica verso una vera partnership euro-africana.

 


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  1. Sono d’accordo sulla necessità di lavorare sulle competenze interculturali degli operatori della cooperazione, credo che questo sia l’unico vero modo per cambiare il paradigma del passato. Il problema però non esiste solo tra le fila della UE o delle OOII. Le ONG sono certo più avanti in questo e il personale è molto più abituato ad operare vere partnership con gli attori locali. ma anche qui è necessaria tanta formazione per uscire dagli schemi del passato. Grazie per l’alimentazione del dibattito sempre interessante. Antonio

  2. Finalmente un approccio innovativo indispensabile per gestire il salto “culturale” presente anche nella nuova legge italiana sulla cooperazione. Certo non bastano le parole, è necessario studiare, mettere in pratica il dialogo interculturale. Dedicare percorsi strutturati di formazione al dialogo è utile e indispensabile anche per gli “esperti” della cooperazione che il più delle volte si muovono con logiche di “donatori” come fatto notare. Ovviamente qui bisognerà formare la classe politica tutta che si muove in modo estremamente contraddittorio.

  3. Mi rallegro che il tema partenariato sia tornato di attualità. Sono diversi anni che molte Ong stanno lavorando a partire dal partenariato, invertendo il concetto: i soldi e i progetti a servizio dei programmi condivisi e non “aiuti”. Speriamo che tutti gli organismi internazionali si avviino decisamente su questa strada.
    Anche in Italia, con la nuova legge si è tentato di introdurre questo concetto, ma la lettura della DGCS e per ora anche della AICS sembra piuttosto attardata su vecchi concetti.
    Io sono convinto che la cooperazione può avere molto più impatto con il sostegno ai partner e con progetti di partenariato piuttosto che con grandi investimenti (si fa per dire)in progetti “materiali”.
    Etc. etc.
    Buona notizia comunque
    Giancarlo

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