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Miti da sfatare sul terzo settore: Leadership vs Management

In questi giorni, a partire da un interessante intervento di Carola Carazzone, si sono susseguite riflessioni intorno al tema del superamento di alcuni miti da sfatare, paradossi, limiti strutturali e criticità del Terzo Settore. Un dibattito che aiuta tutti a capire la complessità nella quale ci stiamo muovendo oggi ed è proprio da tale complessità che vorrei partire per dare il mio contributo alla discussione. Viviamo un’epoca caratterizzata da quella che molti analisti definiscono con l’acronimo VUCA: Volatility, Uncertainty, Complexity e Ambiguity. Operare al meglio oggi è estremamente difficile, soprattutto in contesti sociali con gravi violazioni dei diritti umani e alti tassi di disuguaglianza, ma non sarà certo il “project management” a salvarci e nemmeno i “manager”, gli “amministratori” o i “direttori” tradizionalmente intesi.

Nelle nostre organizzazioni non abbiamo bisogno di persone cha sappiamo solo gestire o amministrare progetti e persone. Forse non è mai bastato l’approccio puramente gestionale o da “ragioneria”, per citare Federico Mento. Quello che oggi, però, è cambiato è che nella complessità attuale questo approccio non fa che alimentare proprio quelle criticità che gli interventi che citavo hanno già evidenziato. Abbiamo bisogno di persone competenti, coraggiose e appassionate in grado di guidarci (“to lead”), di dare un senso insieme a noi a quello che facciamo e capaci di creare contesti di fiducia reciproca e di speranza dentro e fuori le nostre organizzazioni. Abbiamo bisogno di leader. “Persone che si facciano carico” di questa sfida e non “persone in carica”.

Anche il problema del “progettificio” (e del proliferare di figure professionali quali quelle dei “progettisti”, dei “desk” o dei PM) non risiede soltanto in una degenerazione organizzativa dipendente dal sistema dei “bandi”, dallo “starvation cicle” o dalla tendenza a semplificare e a ragionare per attività (anziché per cambiamenti di medio lungo periodo). Tendenza che ha trovato il suo feticcio nel Quadro Logico e che un approccio quale quello della Theory of Change può – a determinate condizioni – riportare al suo senso originario. Qui si tratta anche di fare un salto verso quella capacità di visione e di guida che molti leader delle organizzazioni del Terzo Settore hanno perso o accantonato, oppure non hanno mai avuto o sviluppato. Anche perché molti di loro sono cresciuti professionalmente in un’epoca nella quale la complessità attuale era soltanto agli albori.

Eppure qualcosa sta cambiando. Lo vedo dal mio osservatorio di consulente di organizzazioni del Terzo Settore. L’esigenza è percepita, si muovono i primi passi in questa direzione. L’esperienza fin qui accumulata resta preziosa, anche se molto resta ancora da fare. Il tema fondamentale è lo stile di leadership che le organizzazioni del Terzo Settore hanno per lo più consolidato (salvo eccezioni) negli anni, non solo a causa di spinte e minacce provenienti dall’esterno. Uno stile basato fondamentalmente su modelli fortemente gerarchizzati, altamente burocratizzati e centrati su procedure e regole anziché sullo sviluppo e sull’innovazione. Ha prevalso la paura di sbagliare, di perdere il controllo e di “essere fregati” rispetto al coraggio di investire su persone di cui fidarsi e cui delegare l’innovazione e il cambiamento. E il problema chiama in causa prima di tutto chi nelle organizzazioni ha maggiori responsabilità, a partire da CD/CDA.

Questo significa che le organizzazioni del Terzo Settore hanno davanti una sfida che può partire anche dal loro interno, senza aspettare che nel frattempo si muovano i donatori o la pubblica amministrazione: ripensare i propri modelli organizzativi in modo tale da abitare la complessità invece che semplificarla artificiosamente o pretendere di controllarla. Significa rimettere al centro le persone e le competenze di leadership. Come diceva Steve Jobs, “it doesn’t make sense to hire smart people and then tell them what to do; we hire smart people so they can tell us what to do”.

Significa investire in saperi e visioni interdisciplinari. Significa mettersi nelle condizioni per apprendere continuamente dai propri successi e dai propri fallimenti, valorizzandoli in un processo continuo che abbia i cambiamenti di medio lungo periodo come faro. Significa, in ultima istanza, preparare le nostre organizzazioni a stare dentro il “gioco infinito” della complessità, il cui obiettivo finale non è vincere più bandi ma migliorare continuamente il nostro impatto.

Certo, avere strutture organizzative più flessibili, centrate sul lavoro di team interdisciplinari e con alti livelli di delega è assolutamente più difficile da realizzare – almeno inizialmente – che restare attaccati a un modello gerarchico e controllante. E richiede anche Leader in grado di guidare questo tipo di cambiamento. Un cambiamento che si basa, oltre che sull’interdisciplinarietà, anche su contextual awareness, peripheral vision e design thinking. O pensate davvero ancora di poterla controllare, questa complessità? Come ebbe a dire l’ex CEO di General Electric: “Se il livello di cambiamento all’esterno supera quello all’interno dell’organizzazione, la fine è vicina”.

di Christian Elevati


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  1. Queste erano le intenzioni di chi aveva creato il corso di laurea in Cooperazione allo sviluppo, ma il mercato del lavoro delle ONG non era pronto ad accoglierci…ed eccoci qui a cercare lavoro in tutt’altri settori o a specializzarci perchè la nostra figura non è riconosciuta!

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