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Rapporto desk-espatriati: motivazione e consapevolezza per dare un senso a quello che facciamo

La gestione delle risorse umane nel contesto della cooperazione allo sviluppo presenta una elevata complessità e aspetti peculiari, che influenzano la performance lavorativa e il benessere degli operatori nei contesti di intervento. Nel lavoro con il personale espatriato, soprattutto, ci si trova spesso davanti alla domanda circa il senso di ciò che si sta facendo. Questa domanda può assumere diverse sfumature implicite: ciò che faccio ha un valore? Ciò che faccio fa la differenza? Contribuisce alla realizzazione di qualcosa di positivo?

Su questa domanda si innestano le dimensioni di frustrazione, di difficoltà e fatica che sono proprie della complessità della situazione in cui si opera, ma che sono appunto acuite da questa sorta di mancanza di prospettive. Gestire le risorse di un’organizzazione che lavorano in contesti complessi e sostenerli nel lavoro quotidiano soprattutto davanti alle situazioni di crisi è un’impresa da non sottovalutare e necessita innanzitutto di consapevolezza. L’errore da non fare è quello di agire esclusivamente sulla base dell’esperienza acquisita dando per scontato o minimizzando i segnali che spesso ci arrivano dai colleghi che operano sul campo.

Nella pratica linguistica possiamo rispondere alla domanda “perché fai una determinata cosa?” in diverse modalità: riconducendo l’azione a quanto accaduto in precedenza; interpretandola e fornendone una lettura dal punto di vista di chi agisce; riferendo l’azione a uno scopo, per cui sarebbe un mezzo.

Seguendo questa struttura, possiamo provare a individuare tre diversi “stili motivazionali” che entrano in gioco nel rapporto fra referenti e personale espatriato:

  • uno stile orientato a contestualizzare storicamente la pratica di lavoro. Il singolo agire, il singolo progetto, trovano una cornice nella vision e mission organizzative, ad esempio, che si sono consolidate attraverso un percorso storico di cui spesso chi ricopre ruoli di responsabilità ha una esperienza maggiore. La prospettiva rivolta al passato può coinvolgere anche la storia del diverso contesto geografico e culturale, per rendere ragione delle difficoltà e delle incomprensioni sperimentate.
  • Un secondo stile orientato a fornire diverse interpretazioni della situazione, secondo le prospettive dei diversi attori in gioco (compresa quella del referente stesso). Le frustrazioni e difficoltà non sono negate, ma assumono significati differenti, così come l’equilibrio fra criticità e elementi positivi può essere rivisto secondo la prospettiva adottata. Lo scambio dialogico favorisce l’elasticità del punto di vista: le posizioni in gioco sono spesso intese antropologicamente come attori in un’arena negoziale.
  • Un ulteriore stile è orientato al futuro, e rapporta la dimensione operativa con le finalità dell’organizzazione e il suo ideale di cooperazione. La dimensione progettuale, con tutte le sue contraddizioni, è ricompresa in un processo di più ampia portata. Si favorisce un riorientamento dello sguardo che metta in secondo piano le difficoltà quotidiano, per offrire la visione di obiettivo (in cui le contraddizioni, se non completamente superate, sono però bilanciate dalla gratificazione di un risultato).

È chiaro che gli stili motivazionali delineati sono da intendere come tipizzazioni non alternative: ciascun referente (come anche ciascuna organizzazione) attinge dalle diverse modalità secondo uno stile personale, e può variare i propri riferimenti a seconda delle situazioni. Risulta però utile, come in ogni dinamica interpersonale, essere consapevoli dello stile motivazionale che si sta di volta in volta adottando, o di quelle che sono le inclinazioni personali in questo ambito, per conoscerne potenzialità e limiti.

Gli stili orientati al futuro e al passato si richiamano a vicenda, e sono accomunati dalla distanza posta fra l’agire quotidiano e l’obiettivo cui si tende, o l’origine di senso cui si corrisponde. I valori fondativi si traducono spesso anche in una visione del futuro, ripresa dalla circolarità fra i termini tecnici di mission e vision. Il quadro complessivo offre una visione desiderabile, condivisibile, per cui vale la pena impegnarsi. Le motivazioni offerte alla quotidianità sono principalmente di ordine strumentale: questo ha senso perché serve a costruire altro. Il limite è dato dal fatto che la pratica non viene valorizzata in sé, quindi proprio il principio di movimento (la distanza dall’obiettivo), rischia alla lunga di essere logorante. Soprattutto nei casi in cui le criticità progettuali sembrano inficiare anche il raggiungimento dei risultati prefissati.

La prospettiva orientata all’interpretazione ha di contro come punto di forza proprio la possibilità di costruire un senso differente per l’agire quotidiano. Senza togliere l’elemento di fatica, vengono messe in luce anche altre prospettive da cui guardare a quanto si sta facendo. Questo esercizio è già una pratica di riappropriazione del proprio agire da parte dell’operatore: non subisco passivamente le difficoltà, ma resto sempre un attore che ha margini di possibilità in esse. Lavorare su questi spazi di manovra è un primo passo di gestione della frustrazione, oltre a favorire la strutturazione di modalità alternative di lavoro.

Il limite qui è dato, correlativamente, dal fatto che il lavoro interpretativo non fornisce indicazioni sulla direzione dell’agire: non ne mette in questione le finalità, e quindi è poco utile per operare scelte di merito fra prassi da adottare. A livello emotivo, inoltre, si sperimenta sì una forma di alleggerimento legata all’ascolto e alla comprensione, ma non quella forma di fascinazione data da qualcosa di desiderabile. Possiamo dire che una forma di motivazione interpretativa è meno “calda” rispetto alla precedente.

La tipizzazione proposta non ha lo scopo di individuare uno stile “giusto” rispetto ad altri, ma quello di offrire una possibile mappa di lettura del proprio stile e di quello dell’organizzazione per cui si opera, nell’ambito specifico della valorizzazione delle risorse umane. Si tratta di favorire forme di consapevolezza che portino a strategie e scelte basate sulla riflessione e non sulla replica di prassi acquisite, orientate al benessere degli operatori e all’efficacia del loro lavoro.

(a cura di Luca Piazzi – IPSIA)


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  1. Articolo interessante anche se personalmente ritengo che il principale problema oggi nella gestione delle risorse umane espatriate sono le risorse umane stesse. E’ sempre più raro creare dei legami identitari con l’istituzione e la sua mission, l’espatriato sempre più vive sé stesso come un professionista della cooperazione, un consulente, che come tale ti accompagna per un breve cammino fino a che non sopraggiunga una migliore offerta e un più prestigioso committente. E’ triste, ma così. In passato ci si sceglieva (istituzione/risorsa umana) perché alla base c’era una identità di valori, visione e stile operativo. Oggi la scelta è congiunturale.

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